
«Due sono le tragedie nella vita: la prima, non realizzare i propri desideri, la seconda, realizzarli».
Oscar Wilde
La paura di vincere, o “nikephobia”, è entrata a far parte nel secolo scorso delle discipline psicologiche, in particolare quando si parla di psicologia dello sport o di performance di alto livello.
A volte infatti, quando ci troviamo ad un passo dal raggiungere i nostri obiettivi – professionali, artistici, sportivi o sentimentali – paradossalmente succede che finiamo per ‘remarci contro’, per auto-sabotarci.
Sono numerosi i casi di performer che, proprio quando stanno per raggiungere un traguardo, si bloccano, a volte perché non si sentono all’altezza, oppure perché non vogliono affrontare le responsabilità che comporterebbe una vittoria, quasi come se i grandi cambiamenti generassero più paura che desiderio.
All’interno del suo libro, “La paura di vincere: aggirare il più subdolo dei nostri limiti” (2024), Giorgio Nardone spiega come dietro a questi comportamenti apparentemente assurdi, si nasconda una resistenza al cambiamento il più delle volte inconsapevole, al di fuori del controllo razionale.
L’autore racconta alcune storie di interventi su casi esemplari e definisce varie forme di paura di vincere, io ne elencherò solo alcune.
Le quattro emozioni primarie – paura, dolore, piacere, rabbia – giocano sicuramente un ruolo importante a seconda della specifica paura di vincere, ma a determinare il crollo della prestazione contribuiscono, secondo Giorgio Nardone, alcuni importanti fattori psicologici, quali ad esempio:
La paura di non riuscire a gestire gli effetti del successo, o di mantenerlo, può generare una sensazione di allarme.
Quando la paura aumenta, a un passo dal raggiungimento dell’obiettivo desiderato, la persona si ritrova bloccata e incapace di esprimere al meglio le proprie capacità.
Una seconda modalità cognitiva, innescata sempre dalla paura, consiste nell’autoinganno.
In questo caso, si considera il traguardo anelato come qualcosa per cui non valga la pena faticare o soffrire.
“L’autoinganno ci permette di giustificare, con noi stessi e con gli altri, la rinuncia a fare qualcosa che ci spaventa, rappresentandola come una ragionevole scelta e non una fuga” (Nardone, 2024).
In alcuni casi, una volta che si realizza qualcosa per cui si è tanto lavorato, si rimane delusi.
Il dolore compare una volta raggiunto l’obiettivo, ad esempio un avanzamento di carriera in ambito professionale, quando la persona scopre che il risultato raggiunto non dà la felicità attesa, ma anzi può generare sofferenza personale e relazionale.
L’affaticamento estremo può giocare brutti scherzi alle nostre capacità mentali, così come uno stress psicologico può portare a un blocco nell’agire.
“Il mollare, spesso quando si è prossimi a un conclamato successo, è originato da una reazione di allarme dell’organismo che, per salvaguardarsi, provoca un crollo psicofisico. A dimostrazione che la natura spesso è decisamente più saggia della coscienza umana” (Nardone, 2024).
Oltre a questi fattori psicologici, Giorgio Nardone, sulla base della sua vastissima esperienza clinica, descrive nel suo testo altre tipologie di paura di vincere, quali la “frustrazione e rinuncia“, il “dolore e resa“.
Parafrasando Oscar Wilde: sono proprio le persone a noi più vicine che non ci perdonano il successo.
All’interno del film Il cigno nero, di Darren Aronofsky (2010), la madre di una giovane e promettente ballerina, interpretata magistralmente da Natalie Portman, dedica tutti i suoi sforzi affinché la figlia ottenga ciò che lei non è riuscita a realizzare.
Quando la ragazza riceve il ruolo principale ne Il lago dei cigni, dovrà interpretare due figure opposte: il Cigno Bianco, simbolo di purezza e controllo, e il Cigno Nero, incarnazione di sensualità e istinto. Questa doppia richiesta artistica diventa per lei un vero e proprio tormento psicologico.
All’apice della sua carriera, la ragazza che sogna la perfezione e teme la disapprovazione della madre, resta prigioniera dei suoi demoni e, anche se la sua esibizione è un trionfo, lo spettacolo finisce in tragedia, con la sua morte.
Il film è una potente metafora della condizione umana moderna, schiacciata dal bisogno di riuscire e di nascondere ogni fragilità, un esempio dove arte e follia si fondono, e in cui la paura di vincere si trasforma in dolore per le conseguenze che il successo può avere su chi si ama.
Per molti decenni, si è parlato di paura di vincere solo nell’ambito della scienza della performance.
In realtà, questo fenomeno si può osservare frequentemente anche in persone che non svolgono attività da alta prestazione, poiché ha a che fare con dei limiti che la persona si costruisce, come sublime “autoinganno”, per non soffrire di qualcosa che emotivamente sente come pericoloso.
Per risolvere con successo questa problematica così complessa, è necessario utilizzare tecniche di intervento validate e adattarle allo specifico caso.
La paura di vincere va pertanto gestita e trattata esclusivamente da professionisti che possiedano un solido bagaglio di competenze.
Per approfondire ulteriormente questo argomento, oltre a leggere il libro che vivamente ti consiglio, puoi guardare su Youtube il video integrale della conferenza di Giorgio Nardone tenutasi a Peccioli in occasione della seconda edizione del Simposio sul Cambiamento.